di Raniero La Valle
Caro Bellavite, caro Roberto Mancini,
carissimi della Parrocchia Romana di Santa Maria ai Monti con l'amico
senatore Luigi Zanda, e Luigi Accattoli, cari amici di Lecce, di Brindisi,
sarei venuto come avevo promesso da voi in quest'ultimo scorcio della
campagna referendaria, se non fossi stato tradito da un dissesto molto
inopportuno delle due camere, questa volta delle due camere cardiache che mi
hanno fatto finire al pronto soccorso Umberto I per uno scompenso cardiaco. Le
due camere fanno tutte e due la stessa cosa, cioè irrorano tutto l'organismo di
sangue fresco e vitale e permettono una vita ordinata, così come con due gambe
si corre. Ciò è quello che succede in natura e dovrebbe succedere anche nella
politica almeno quando la politica si ispiri a una buona filosofia e cerchi di
avvicinarsi, come diceva Aristotele, all'ordine naturale delle cose. Nel mio
caso l'ordine naturale delle due camere cardiache ha fatto venire meno, spero
provvisoriamente, l'equilibrio tra la mia età e il mio lavoro aumentato in
questo periodo a causa del referendum. D'altra parte i valori supremi su cui
come dice una famosa sentenza della Corte si fonda la Costituzione Italiana non
potevano certo consentire che si stesse a centellinare l'impegno per difenderli
dopo che così sconsideratamente sono stati esposti all'abbandono con
grave rischio per la pace, per la democrazia parlamentare, per i
nostri figli e per gli stranieri.
In questo momento in nome di Moro
martire e di Dossetti costituente non posso che esortare tutti al massimo
impegno per il No nel Referendum. Per fortuna io devo mettermi in disparte
quando già con tutto il movimento dei Cattolici del NO abbiamo potuto esprimere
compiutamente la nostra posizione che ci pare così limpida, morale e politica
insieme.
E per fortuna abbiamo potuto, nel
dipanarsi del ragionamento, chiarire in tutta Italia quali avrebbero dovuto
essere i titoli dei cambiamenti proposti dai riformatori se fossero stati
quelli veri; e i titoli avrebbero dovuto essere questi:
1) Il vero quesito: Approvate il
trasferimento della sovranità dal popolo ai mercati e il passaggio dalla difesa
della Patria a quella degli interessi? (Messina, 16 settembre).
2) Il vero quesito: Approvate il
superamento della democrazia parlamentare? (Loppiano, 30 settembre).
3) Il vero quesito: Approvate di spegnere
la politica e non opporvi al potere? (Matera, 7 ottobre 2016).
4) Il vero quesito: Approvate che lo Stato
sia tutto, le Regioni niente e che uno solo decida la guerra? (Bitonto, 19
ottobre, Sesto Fiorentino 22 ottobre).
5) Il vero quesito: Approvate una riforma
che prevede la vittoria come il fine della politica e la società divisa in
vincitori e sconfitti? (Salerno, 7 novembre).
6) Il vero quesito: Approvate una revisione
della II parte della Costituzione che rende la Costituzione non costituzionale?
(Modena, 12 novembre).
7) Il vero quesito: Approvate una riforma
che tradisca i valori supremi su cui è fondata la Costituzione repubblicana?
(Vicenza).
E al contempo abbiamo potuto argomentare
la verità dello stesso referendum. Ed è la verità che ci farà liberi.
Sono anche contento che con questo mio
ultimo discorso che vi mando " I valori supremi della Costituzione traditi
dalla riforma" il mio impegno referendario sia venuto a concludersi non il
4 dicembre ma domenica 20 novembre. La vera data di transito infatti non è
quella da una Costituzione all'altra, ma dall'anno della misericordia, che si è
concluso il 20 novembre, a un'intera età della misericordia che oggi si inizia.
Questo avrei detto a Sotto il Monte nel discorso per il centenario di padre
David Maria
Turoldo che anche vi allego: occorre sentire che cosa ci sta dicendo questo
papa che ci arreca una nuova rivelazione di Dio, perché un Dio così che ama
tutti e perdona,
tutti quando ancora siamo nel nostro peccato lo avevamo sognato da lontano ma
ancora non ce lo aveva raccontato nessuno.
Dunque cominciano per l'Italia e
per il mondo tempi buoni e propizi.
Un caro saluto a tutti
Raniero La Valle
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LA FEDE DI PADRE DAVID
E IL CONCILIO
Sotto il Monte Giovanni
XXIII, 29 novembre 2016
Purtroppo io non sono
stato al funerale di padre Turoldo. Siamo stati amici per una vita, abbiamo
lavorato insieme, pregato tante volte insieme, dopo il Concilio fino alla sua
morte. Ma al funerale non ci sono andato, ero in Puglia per un convegno
importante di cui ero relatore, lui non avrebbe voluto che venissi meno a
quell’impegno. Così mi è mancata l’esperienza fisica della sua morte, non ho
potuto elaborare, attraverso la liturgia delle esequie, il passaggio di padre
David dalla vita alla morte, dalla sua corporeità alla vita nascosta in Dio.
Così per me David è
rimasto sempre presente nella sua fisicità, con quelle sue grandi mani, l’alta
statura, lo sguardo fiammeggiante; come lo ha descritto il suo amico padre
Camillo de Piaz, fin da quando era ragazzo, “Lui era uno spilungone alto e
lento, una presenza fisica ingombrante, a sé e agli altri, fin da allora di
pelo rosso, poi trascolorato col tempo in un biondo meno inquietante”. Così per
me è rimasto padre David, anche ora, un uomo di carne, uno spirito incarnato.
Di questo essere di
carne di padre David vorrei ricordare due momenti, uno iniziale, uno finale
della sua vita.
Quello iniziale
riguarda la fame, anzi riguarda la polenta. Quello finale riguarda la malattia,
riguarda il suo cancro.
Perché questi due
ricordi così ruvidi, in un’occasione così spirituale come è questo convegno?
Perché da questo uomo
di carne, noi abbiamo avuto un dono di rivelazione dello spirito, e non di uno
spirito qualunque, ma dello spirito di Dio.
Come poeta, come
liturgo, come prete e come uomo padre David è stato una rivelazione di Dio. La
sua fede non era una fede introversa, un tesoro geloso, ma era un’epifania, era
una trasparenza
Io ho spesso detto,
parlando di lui, che le sue poesie, non meno dei salmi, degli inni che
traduceva, erano delle pagine di rivelazione: parole umane, certo, ma intrise
di sapienza divina, come quei tre versi folgoranti con cui David voleva
consolare Dio per tutte le sbagliate preghiere con cui era invocato, tre versi
che ho voluto mettere sulla copertina di
un mio libro:
Oh quale per te
tenerezza mi ispira
Il carico di errate
preghiere
Onde si crede di
renderti onore!
David è stato un uomo di carne che ha capito
la sofferenza di Dio.
Il primo momento di
questa sua fisicità che voglio evocare riguarda la sua infanzia che egli non ha
mai dimenticato. Racconta padre David:
“ Polenta mia, guai se
qualcuno parlerà male di te. Io non ho mai conosciuto il pane; a casa il pane
lo mangiava soltanto chi si ammalava , ma era un caso raro, e poi tanto poco da
fare appena una ‘panade’. Ma la polenta! Cosa nascondevi dentro la tua
sostanza per farci crescere tutti così
grandi, in fretta? Tutti noi fratelli, alti come gambe di granoturco, forti,
instancabili più degli altri (mai una malattia che ci abbia minati); e, ancora
ragazzi, con il piccone, d’inverno, a estirpare i ceppi perché il focolare
fosse sempre caldo.” Mattino, mezzogiorno, la sera, sempre polenta. “E anzi,
nei giorni duri, di magra, io ricordo mio padre che tagliava due fette della
piccola montagna d’oro e me ne metteva una per mano e mi dice: ‘Ecco, una la
chiamerai polenta, l’altra formaggio’. E io che ci credevo; e addentavo ora da
una mano ora dall’altra, fingendo di mangiare polenta e formaggio. E gli amici,
quelli delle poche famiglie ricche del paese, mi prendevano in giro, m’insultavano.
Io piangevo, non potevo pensar male della polenta, non potevo dir male di mio padre.
A cuocerla era sempre
la mamma, e mi sembrava che dentro vi cuocesse il cuore… Sì, ho tanti altri
ricordi del mio paese. Ma questi possono essere ricordi anche di altri, di tutti.
Io invece devo difendere la mia infanzia, che perciò mi sembra tutta d’oro,
anche se è stata forse la più povera fra tutte le infanzie dei miei compagni.
Ecco perché un giorno,
arrivato in una casa di ricchi, e io già grande, anzi già sacerdote ormai, mi
sono sentito bruciare perché, appena seduto a tavola, la signora ebbe
l’impudenza di dirmi: ‘Oggi ci scuserà, padre, abbiamo polenta’. E io zitto, da
prima, arrossii perché mi sembrava offesa tutta la mia infanzia, offeso tutto
il mio Friuli. Poi, ecco il cameriere, vestito tutto di bianco, con una
zuppiera in mano; e dentro, del giallo che nuotava nel burro; e sopra, degli
uccelli rosolati come martiri. Allora ho sentito tutto il mio sangue
martellare: ’Ecco, signora’ le dissi ‘non cominciamo con l’offendere la
polenta’”.
(Da Mia terra addio, La
locusta, Vicenza, 1980)
L’altro momento, di
Davide in carne e ossa che voglio ricordare è alla fine della vita, quando il drago si è
insediato nel suo corpo, e padre David
canta:
Ieri all’ora nona mi
dissero:
il Drago è certo,
insediato nel centro
del ventre come un re
sul trono.
E calmo risposi: bene!
Mettiamoci
in orbita, prendiamo
finalmente
la giusta misura
davanti alle cose
Ma anche se il drago
pretende che egli si concentri su di sè, David continua a pensare a Dio:
E tu lo pensi
E continui a pensarlo
Come preso da vortice.
E lo invochi con dolce
pazienza:
solo per chiamarlo
e udire l’ineffabile
nome.
E chiedergli niente,
meno ancora di guarirmi
perché non può non può
non deve! Se interviene
libero gioco addio!
Invece chiamate tutte
le creature
Angeli e giusti
A riempire il cielo di
canti
Ma il Dio che non
interviene è un Dio che soffre, vive anch’egli
il dramma “di fronte allo stesso male”:
Anche a te la morte fa
male
Per questo sei amico
Di ognuno segnato dal
male
E ogni male tu vuoi
condividere..
(dai “Canti ultimi”)
È così che, dall’inizio
alla fine, quest’uomo di carne si è fatto testimone, rivelatore ed esegeta di
Dio. Ed è proprio così che padre David è stato profeta del Concilio, perché col
dire Dio ha adempiuto al vero mandato del Concilio. Questo non lo si è capito
subito, perché del Concilio, finché esso era in corso, e anche dopo nei decenni
della sua ricezione, si è data un’altra lettura, nemmeno quelli che l’hanno
fatto hanno davvero capito che cosa il Concilio è stato. Il Concilio è stato letto
come un Concilio di riforma della Chiesa, come un Concilio pastorale, dove il
termine pastorale era depotenziato, ridotto a una modalità, magari più
efficace, di ammaestrare i fedeli. Ed è perché, veniva data per scontata la
teologia, risaputa la dottrina che si è fieramente combattuto sulle riforme; e
per questo il Concilio ha fatto paura, ha suscitato resistenze, ha acceso
riflessi di conservazione, è caduto nel gioco delle interpretazioni; e per
contro, visto che le riforme non procedevano o erano revocate, il Concilio è
caduto dal cuore di molti; alcuni sono stati contro il Concilio perché le
riforme non le volevano, altri ne sono stati delusi perché non le hanno viste
realizzarsi.
Questo è stato il
tormento del post-Concilio nei cinquant’anni che hanno preceduto l’arrivo di
Francesco.
Ma il Concilio non era
stato questo, e non così lo aveva pensato e lo aveva voluto papa Giovanni.
Quello che doveva fare il Concilio non era di restaurare la Chiesa, era di restituire
Dio ad un mondo che l’aveva perduto. Questo è precisamente ciò che papa Giovanni XXIII aveva chiesto al
Concilio di fare, anche se allora si preferì mettere l’accento sulla riforma
della Chiesa. Nel suo discorso di apertura egli aveva infatti detto due cose.
La prima era che bisognava passare dalla severità alla misericordia, e la
seconda che il tesoro della dottrina cristiana doveva essere oggetto di un
“nuovo studio” (un “nuovo esame”, diceva il testo italiano), e doveva essere
“reinvestigato” (pervestigetur) ed esposto (exponatur) “in quella forma che i
nostri tempi richiedono” (ea ratione quam tempora postulant nostra), altro
essendo il deposito, cioè le verità, della fede, altro il modo in cui
esse vengono anunziate (Gaudet Mater Ecclesia,
n. 6).
Non si trattava dunque solo
della ricerca di una nuova forma letteraria, ma di una nuova comprensione ed
enunciazione del Vangelo; di una nuova comprensione e
narrazione di Dio.
Papa Francesco è ripartito
esattamente da quel punto. Ha
indetto l’anno santo straordinario ripartendo dal Concilio, esattamente dal
punto, anzi dal giorno, l’8 dicembre, in cui il Concilio era stato interrotto. Perché
quell’ “evento”, come il papa lo ha chiamato, contro l’ermeneutica riduttiva che
lo aveva
voluto ridurre a un collage di documenti
chiusi in se stessi, anche
50 anni dopo. Non era affatto finito. Ed ora, superata la palude, si
ricongiungeva al pontificato di Francesco, sicché Concilio e papa Francesco non
sono due eventi, ma un unico evento.
Nella bolla d’indizione del
Giubileo, la Misericordiae Vultus, papa Francesco dice che “i Padri radunati
nel Concilio avevano percepito forte, come un vero soffio dello Spirito,
l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in un modo più comprensibile.
Abbattute le muraglie che da troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una
cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il Vangelo in modo
nuovo” (n. 4).
Parlare
di Dio agli uomini in un altro modo. E’ quello che incessantemente fa papa
Francesco a partire dal Vangelo che ogni mattina legge e commenta in faccia a
tutti bucando le pareti della casa di Santa Marta. Ed è quello che
incessantemente, e per tutta la vita, ha fatto padre Turoldo. E la cosa più
straordinaria è che la nuova immagine di Dio che viene trasmessa dalla
testimonianza vitale del papa Francesco è molto simile all’immagine di Dio che
padre David ha contemplato, cantato e annunziato in tutta la sua vita.
E ciò proprio a partire
dai due connotati principali a cui è legata questa nuova rivelazione di Dio, il
connotato del Dio che è solo misericordia, il connotato del Dio che si rivela
nel mistero del povero. E dico nuova non certo in relazione alla figura di Dio
rivelata da Gesù, ma nuova rispetto alle prassi e agli stereotipi delle Chiese,
delle religioni e delle filosofie mondane.
Non insisterò sui
tratti della misericordia che irradiano dal volto di Dio disegnato da padre
David. Tutta la sua poesia è polarizzata sul Dio di misericordia, e del resto
le sue traduzioni dei salmi e degli inni non sono che un canto alla misericordia,
che è celebrata in ogni salmo ed è oggetto della lode ininterrotta che percorre
tutto l’Antico Testamento.
Voglio invece fermarmi
sul tema della povertà in cui si incontrano la riflessione di padre David e
l’eredità del Concilio che papa Francesco ha raccolto.
È nel fare esperienza
di Dio, della sofferenza di Dio, della sua debolezza e indigenza, che padre
David ha incontrato il mistero del povero e ne ha cantato la “profezia”; e
proprio questa è stata l’ultima parola di padre David in un libro uscito
postumo, nel 1988, per l’editrice Servitium, dal titolo “La profezia della
povertà”.
In che modo questo tema
turoldiano incrocia la profezia del Concilio?
Il tema dei poveri, come è noto, è stato riproposto alla Chiesa del Novecento
da Giovanni XXIII l’11 settembre 1962, nel suo radiomessaggio un mese prima del
Concilio Vaticano II, con l’annuncio di una Chiesa di tutti ma soprattutto dei
poveri.
Nel modo romantico e
pio con cui siamo abituati a parlare dei poveri nel nostro linguaggio
cristiano, spesso dimentichiamo che la beatitudine dei poveri, cioè la loro
felicità, non consiste nell’essere poveri, ma nell’essere amati da Dio. La
maggior parte delle beatitudini, in Matteo e soprattutto in Luca, riguarda
gente che non è affatto felice; saranno felici dopo perché vedranno Dio, perché
entreranno nel regno, perché saranno consolati. E’ una felicità futura,
escatologica. Perciò la maggior parte delle beatitudini va letta in un’ottica
di rovesciamento. Sono beati perché la loro condizione dolorosa viene
rovesciata. I poveri non sono felici perché sono poveri, ma perché Dio più di
tutti li ama. Gli offesi non sono felici perché oltraggiati, ma perché Dio li
esalterà. Gli afflitti non sono felici perché piangono, ma perché saranno
consolati. Perciò non si può fare l’apologia della povertà, della persecuzione,
della diffamazione, del pianto. Sarebbe assurdo piangere o far piangere perché
poi arriva la consolazione. Perciò povertà, oltraggi, persecuzione, esclusione,
ingiustizia vanno tolte. Sono contraddizioni da togliere. Questo è il
rovesciamento. Ed è proprio così che pensava ai poveri padre David. Bisogna
fare di tutto perché non ci siano poveri - né poveri atei, né poveri in
spirito, come li chiama Matteo, perché vivono la loro povertà davanti a Dio - bisogna
fare di tutto perché non ci siano privi di giustizia, perché non ci siano né
odiati, né esclusi; sarebbe un travisamento del Vangelo rallegrarsi della
povertà perché fa salire di valore i beni del cielo, o scambiare la fame con il
digiuno, o compiacersi delle persecuzioni e del sangue, in un’ottica
sacrificale, perché i martiri sono il seme dei cristiani. Poveri sono i
curvati, gli oppressi. Altra cosa è la kenosi, il perdere la propria vita per
amore, il Dio che da ricco si fece povero, ma qui la stessa parola - povero - è
usata per dire due cose diverse, e le cose non devono essere confuse.
Dunque la povertà va combattuta, va rovesciata; se è una
povertà sociale, la contraddizione deve essere tolta sul piano economico,
sociale e politico, se è una povertà ecclesiale o religiosa la contraddizione
deve essere tolta sul piano ecclesiale e religioso.
Perciò
se vogliamo avanzare la profezia della povertà, dobbiamo partire dalla povertà
reale, dal corpo del povero che lavora a cui l’attuale sistema economico selvaggio ha tolto ogni potenza sociale.
E
bisogna anche dire che le povertà crudeli che oggi ci interpellano non sono
frutto del caso, o di calamità naturali, in modo tale che non si possa far
nulla, ma sono il risultato di scelte precise, culturali e politiche, che
abbiamo fatto nel tempo e che finché noi non correggiamo e non rovesciamo,
fanno sì che tali povertà siano un prodotto nostro, siano tuttora volute da
noi.
Come
si fa a ignorare che in Italia ci sono 4,6 milioni di poveri assoluti, e che
tra tutte la componenti sociali i giovani, più di tutti gli altri, sono
contigui ed esposti alla povertà?
Noi
abbiamo bisogno di questa concretezza e di porci anche il problema del “che
fare” politico quando parliamo dei poveri, altrimenti rischiamo di restare
nell’astrazione o di buttarla in mistica. E’ stato questo il limite subito dal
discorso sulla povertà del Concilio. Il cardinale Lercaro addirittura aveva
detto che il tema della povertà non era un tema tra gli altri, a cui magari
dedicare un apposito schema, ma per il suo rapporto col mistero di Cristo e per
la gravità della situazione storica doveva essere preso come il tema generale e
sintetico di tutto il Concilio; ma proprio perché è mancato l’approccio storico
concreto, proprio perché è mancato l’impatto con la dimensione pubblica della
povertà e con la carne sofferente del povero, il tema della povertà nel
Concilio si è ridotto a un tema mistico ed edificante, e ha prodotto in qualche
centinaio di vescovi poco più che il proposito di una vita sobria e il cambio
delle croci d’oro con croci di legno.
Domenica
20 novembre si è chiuso il Giubileo. Nella
sua idea ispiratrice, che è illustrata nel Levitico, l’anno del giubileo doveva
essere quello nel quale fosse restituito
ai poveri ciò che a loro era stato tolto, le terre e la libertà di cui erano
stati espropriati. Può darsi che questo non sia mai avvenuto nella stessa
storia di Israele, ma certo se oggi si riattualizza il Giubileo alla luce della
nuova rivelazione di Dio, si può dire che al di là dell’anno giubilare, è un
tempo nuovo che deve cominciare, è una nuova epoca in cui la misericordia di
Dio si può manifestare ed è a una nuova liberazione dei poveri a cui la
profezia della povertà deve condurre.
E
a me sembra che ci siano tre povertà radicali che il Concilio aveva messo a
nudo, e che ora papa Francesco e la sua Chiesa intendono sanare. Tre povertà da
togliere, che corrispondono a tre rivoluzioni da fare.
La
prima povertà da togliere è quella che il mondo della modernità ha subito, con
la perdita di Dio.
Dio,
nel processo storico culminato nella modernità, era stato perduto in molteplici
modi. Sociologi, storici, filosofi, storici della Chiesa hanno indagato e ci
hanno detto i diversi modi in cui Dio era stato perduto. E’ stato perduto
all’inizio perché per liberarsi dalla stretta confessionale i cristiani stessi,
i giusnaturalisti hanno deciso di fare come se Dio non ci fosse, etiam si Deus
non daretur. E’ stato perduto per l’esplicito rifiuto avanzato dall’ateismo,
filosofico prima, politico poi; è stato perduto per la secolarizzazione ma
anche perché Dio è stato resto superfluo da una Chiesa che si è messa al posto
di lui, che si è proposta come sua sostituta o vicaria; è stato perduto perché
Dio è stato travisato e frainteso, presentato come un Dio nemico della libertà
umana, fariseo e vendicativo, agli uomini e alle donne della nostra età.
Il
Giubileo della misericordia ci scioglie dal debito verso questo Dio sbagliato.
Esso restituisce Dio, e lo restituisce come Dio della misericordia. La
misericordia su cui si fonda il pontificato di Francesco non è una curvatura
buonista o romantica del magistero papale, è una’operazione ermeneutica; è un
nuovo annuncio di Dio. E’ tornare, come voleva fare padre David, al kerigma, ricominciare a fare quello che
faceva Gesù: far vedere il volto del Padre, fare l’esegesi di Dio.
Novità
non solo nell’ordine pastorale, ma nell’ordine teologico e dottrinale.
È
un nuovo annuncio di Dio, che ama tutti, che perdona sempre, che arriva sempre
primo nell’amore mettendosi del tutto fuori da una logica di retribuzione, di
una indulgenza da lucrare; è un Dio che risponde alla radicale povertà dei non
amati, dei non eletti, degli scartati, dei lasciati, degli esclusi, dei senza
dimora.
Questa,
il furto di Dio agli uomini e donne
della modernità, è la prima delle povertà radicali che una nuova età della
misericordia deve oggi sanare. Perché è chiaro che un anno non basta, ci vuole
un’età della misericordia, e questo è il tempo nuovo per la Chiesa di
Francesco.
2)
La seconda povertà radicale da sanare è la povertà della guerra, la povertà di
tutte le vittime della violenza e della guerra.
Non
dobbiamo mai dimenticare il contesto in cui ci troviamo Lo strazio della Siria,
di Mosul, di comunità intere usate come scudi umani, di teste tagliate, di
donne lapidate e frustate, di una sfida militare portata fin sui confini della
Russia, di un proliferare delle armi e l’Italia che il 27 ottobre all’ONU vota
contro l’avvio di trattative per il divieto e l’eliminazione di tutte le armi
nucleari.
Dentro
questa violenza, che è la causa che getta nel Mediterraneo e nel mondo milioni
di profughi, papa Francesco si mette in gioco con la sua Chiesa per togliere
l’estrema povertà della guerra.
Non
sto dicendo che il papa condanna la guerra, dice “ mai più la guerra”, dice che
la guerra è contro ragione, cerca di risolvere i conflitti anche con la
diplomazia e le mediazioni. Queste non sono novità. Questo l’hanno fatto
Benedetto XV, Pio XII, papa Giovanni, Paolo VI, Wojtyla, tutti i papi del
Novecento. Ora c’è qualcosa di più. Papa Francesco attacca la guerra nella sua
fondazione ultima, nella sua legittimazione suprema, che è la violenza di Dio,
che è la guerra ritenuta santa della stessa santità di Dio, che è la vittoria
cercata nel segno e nel nome di un Dio violento, re vittorioso e guerriero.
La
Chiesa di papa Francesco cambia, per sé e per tutte le religioni, la figura di
Dio in rapporto alla guerra, a qualunque guerra, anche quelle giuste,
umanitarie, di civiltà. Recide ogni legame
tra Dio e la guerra, li mette in contraddizione tra loro. Dice
semplicemente che il Dio di guerra non esiste, cioè dice che rispetto al Dio
della guerra, della vendetta, della retribuzione del male col male, noi siamo
giustamente atei; siamo atei, papa in testa, rispetto a un Dio sbagliato,
contraffatto, frainteso, anche se è raccontato in certe pagine della Bibbia, e
siamo credenti invece in un Dio nonviolento, siamo i testimoni e gli alfieri
della nonviolenza di Dio. Come diceva Rahner, dopo il Concilio, qui non cambia
solo l’annunciatore, cambia l’annuncio.
La
Commissione teologica internazionale che nel 2013 ha pubblicato un documento
sul monoteismo contro la violenza, cominciato con Benedetto XVI e portato a
termine con Francesco, dice che il definitivo congedo del cristianesimo dal Dio
violento rappresenta una svolta epocale nella storia dell’umanità e cambia
l’idea stessa di religione. Cambia tutte le religioni, non solo la nostra. Si
tratta – dice – “di un discernimento che inaugura una nuova fase della storia
della salvezza”. Francesco non parla solo ai cristiani, ma a tutte le
religioni, e non è sincretista perché annuncia il Dio rivelato da Gesù e, fa
esattamente quello che ha fatto Gesù nella sinagoga di Nazaret, quando annunciò
l’anno di misericordia del Signore e non “il giorno della vendetta del nostro
Dio”; e è quello che faceva padre David nelle sue straordinarie liturgie a
Sotto il Monte.
3)
Infine il tempo nuovo di papa Francesco viene a sanare una terza radicale
povertà. E’ la povertà, di cui la Chiesa stessa è stata causa, che consiste un
un’antropologia pessimistica per la quale la natura dell’uomo non sarebbe
quella uscita in principio dalle mani di Dio, ma sarebbe una natura decaduta,
declassata, umiliata e punita per una
colpa che si trasmette anche tra gli incolpevoli (ad eccezione della Vergine
Maria) di generazione in generazione. E’ la dottrina del peccato originale, e
la potremmo chiamare un’antropologia della disaffiliazione, operata dallo
stesso Dio, per la quale l’uomo ha perduto il mondo come sua dimora, è rimasto
senza dimora, su un suolo ostile, che produce spine e cardi e col dolore che
attraversa tutti i giorni della vita, per l’uomo il lavoro come dolore, per le
donne il parto con dolore e la sessualità come dominio dell’uomo.
Questa
antropologia pessimista era stata già abbandonata dal Concilio, che aveva
lasciato cadere la dottrina del peccato originale, affermando che Dio mai ha
abbandonato l’uomo e senza interruzione l’ha accompagnato anche dopo la caduta.
Ma
le conseguenze di quella povertà radicale non erano venute meno; in particolare
non era venuta meno la lettura dell’incarnazione come espiazione di Cristo al
Padre, teorizzata da S. Anselmo; né era venuta meno l’interpretazione
sacrificale della religione e della stessa vita cristiana, né era stata
superata l’idea dell’impotenza dell’uomo a fare alcunché, se non sia Dio stesso
che interviene con la sua grazia ad operare per lui; né si era rinunziato a
tacciare di eresia pelagiana la rivendicazione dell’autonomia dell’umano e
della capacità dell’uomo di governare la storia. La conseguenza era stata,
storicamente, che ratione peccati, in ragione del peccato, la Chiesa doveva
esercitare il potere, doveva supplire alla minorità dell’uomo, ponendosi come
sovrana sovraordinata a tutti i poteri terreni, trasformandosi da comunità di
fede in cristianità. In tal modo la Chiesa si è posta non come segno e
strumento del Regno, ma come Dio o
Cristo già regnante sulla terra, e
regnante sia come potere temporale sia, dopo aver perduto il potere temporale,
come potere sulle coscienze o, come dice papa Francesco, come ingerenza sulla
libertà della coscienza.
Questa
è stata la tragedia che ha pervaso tutta l’età moderna ed è giunta fino a noi.
La
grazia di questo nuovo tempo è l’uscita da queste povertà.
Questa
uscita è cominciata già con il Concilio, che è il vero predecessore, nel
governo della Chiesa universale, di papa Francesco. È stata intravista da
lontano da padre Turoldo e da altri profeti simili a lui (come dimenticare
l’uomo planetario di padre Balducci, l’alternativa umanistica alla
globalizzazione selvaggia?).
Ed
ora questa uscita viene proclamata ai più alti livelli della Chiesa. Lo stesso papa
emerito, Benedetto XVI, ha mandato al macero la dottrina sacrificale ed
espiatoria di S. Anselmo; Benedetto XVI ha scritto sull’Osservatore Romano che
si tratta di “una dottrina in sé del tutto errata”, perché la pretesa del Padre
di farsi risarcire dal sangue del Figlio contrasta con la verità stessa della
Trinità, che è il centro della fede cristiana.
L’uscita
dall’antropologia pessimistica è rinvenibile del resto in tutta la
rivendicazione bergogliana della dignità della donna e dell’uomo, nella sua
teologia del popolo come custode e veicolo della fede, nella sua fiducia
riposta nella lotta dei movimenti popolari che il papa ha presentato e
incoraggiato già tre volte; e l’uscita dall’antropologia dell’impotenza è stata
proclamata anche da quel documento già citato della Commissione Teologica
Internazionale che sulla scorta di S.
Tommaso individua la non violenza di Dio anche nel fatto che Dio non entra in
competizione con le creature, non si sostituisce ad esse, non agisce come una
causa tra le altre ma dà alle creature la potenza di agire, dà agli uomini la
capacità di essere causa delle cose, la causandi dignitas, la dignità di essere
causa, in forza della libertà che è l’immagine stessa di Dio nell’uomo. E
infine l’uscita dalla povertà causata agli uomini dalla sostituzione di Dio con
la Chiesa, dalla conversione della signoria di Dio in sovranità sulla terra, è
stata identificata da papa Francesco nell’uscire dal regime di cristianità. E’
quello che il papa ha mostrato rivolgendosi ai leaders europei che gli avevano
portato a Roma il premio Carlo Magno.
In
quella occasione papa Francesco ha simbolicamente restituito a Carlo Magno la
sua corona, come aveva rifiutato la mozzetta rossa imperiale alla sua prima
uscita sul balcone di san Pietro; egli ha chiuso l’età costantiniana, ha rotto
l’identificazione tra fede, potere, cultura e politica, ha abbandonato il
ritornello delle radici cristiane dell’Europa, ed ha presentato la Chiesa non
come sovrana con due chiavi e tre regni, ma come colei che lava i piedi
all’Europa e al mondo. Il suo servizio sociale è questo. E nel giovedì santo di
quest’anno, quando secondo la Congregazione dei Riti possono essere ammessi
alla lavanda dei piedi solo cattolici, uomini e donne, quali appartenenti al
popolo di Dio, Francesco ha lavato i piedi a cattolici e musulmani, a indù e
non credenti, per dire che il popolo di Dio non siamo noi ma è l’umanità tutta
intera. E dicendo così che non solo il cattolicesimo, ma ogni religione deve
uscire dal suo proprio modo di essere cristianità ed è ricomponendosi in unità
che gli essere umani, i popoli, le religioni, potranno trovare un rapporto non antagonistico
tra loro ma fraterno,
E allora anche la povertà sociale sarà una
contraddizione che potrà essere tolta. E i tre No che pronuncia papa Francesco,
il no all’economia che uccide, al denaro che governa e alla società che
esclude, potranno essere non solo un manifesto religioso, ma un compito
politico
I
poveri ci sono. Non sono felici. Dio soffre per loro. Padre David ci ha fatto
toccare con mano questa sofferenza di Dio, “infelice per la nostra sorte”. La
Chiesa di Francesco esce da se stessa e si fa tramite e strumento nel mondo
della sofferenza di Dio per lenire tutte le povertà, per lavare i piedi
all’umanità in cammino. Per questo al mondo che l’aveva perduto, restituisce
una nuova rivelazione di Dio. Padre David ne sarebbe oggi felice.
Raniero La Valle
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